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Al Teatro Nuovo va in scena il capolavoro di Arthur Miller "Morte di un commesso viaggiatore"

Torna in scena per la terza stagione il capolavoro di Arthur Miller (1915-2005) "Morte di un commesso viaggiatore" nell'intensa e appassionata versione di Elio De Capitani (un’autentica colonna dell’Elfo dai tempi di Salvatores) che ne è protagonista e regista. In scena sul palco del Teatro Nuovo di Verona da martedì 21 febbraio alle ore 20.45 fino a domenica 26 febbraio (ore 16.30), una “storia personale” che diventa collettiva, un classico degli anni Cinquanta (andò in scena per la prima volta nel 1949) che parla del nostro presente raccontando la vicenda di Willy Loman, commesso viaggiatore pronto a tutto per vendere e per vendersi.

«Bastano pochi minuti dello spettacolo per capire – ha scritto Curzio Maltese – che siamo tutti diventati commessi viaggiatori, qualunque mestiere facciamo, qualunque mezzo di trasporto usiamo, che siamo ruffianeschi e affabulanti venditori di merci e in particolare di una: noi stessi». Dopo La discesa di Orfeo di Tennessee Williams, De Capitani ha scelto questo testo per proseguire attraverso la drammaturgia americana una riflessione sulla vita d'oggi e sul tema dei rapporti tra giovani e adulti. Tira in ballo, De Capitani, una frase di Kurt Vonnegut contenuta in Madre notte: "Noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere".

«Willy Loman – aggiunge l’attore-regista – fa della propria famiglia, e poi della sua stessa mente, il palcoscenico della sua illusoria rappresentazione. Sto scavando da anni nella psiche dei bugiardi cronici, dal Caimano di Moretti a Roy Cohn di Angels in America, fino al povero Hector di History boys, la più innocente di queste figure di uomini che mentono a se stessi». E ora è il turno di Willy Loman. «Specchiarmi – dice De Capitani – nella complessità del mentire come riflesso in negativo del nostro connaturato istinto di conservazione, mi sembra una necessità di questi tempi, anche se è da secoli la nostra malattia. Ma ora, che siamo in una fase acuta dell’epidemia, grazie a Vonnegut e a Miller intuisco che il senso ultimo del nodo culturale ed esistenziale che ci avviluppa non è l’apparenza, il far finta, ma l’intreccio tra far finta e sopravvivere, l’intreccio tra noi e il bisogno di sognare qualcosa di diverso: sognare noi, ma diversi da quello che siamo e sognare un mondo diverso da quello che è».

Venditore brillante che ha basato la sua vita sulla rincorsa del successo e sull'aspirazione alla "popolarità" per sé e per i propri figli, Willy Loman si ritrova escluso dal “sogno americano”: a sessantatré anni non riesce più a piazzare la merce e non regge più la fatica dei lunghi viaggi attraverso l'America. Soprattutto non riesce più a illudersi e illudere, vede sgretolarsi il castello di grandi sogni e piccole bugie che si è costruito: “Ormai è ridicolo, fuori moda, ma è così” ammette la moglie che da una vita lo sostiene con amore. La donna vorrebbe che il marito e Biff, il figlio scapestrato, avessero un lavoro fisso e sicuro. Non la preoccupa invece l’altro figlio, Happy. Aiutato dall’amico Charles, Willy riprende a fare progetti spronato da Biff che, umiliato nel corso di una lite in famiglia, si è messo a lavorare. Finché tutto precipita: Willy viene licenziato, Biff si mette a rubare e Happy si perde con le donne. Willy e i suoi due figli si ritrovano in un ristorante e qui litigano in maniera furibonda. Deluso e senza più speranze, Willy...

(fonte foto Teatro Stabile del Veneto)


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